Come dovrebbe cambiare la prevenzione primaria.

 

Epidemiologia e Prevenzione (http://www.inferenze.it/riviste-black.htm)
pubblica un supplemento all’ultimo numero del 2005 (Epi Prev 2005, 29:8-12,
suppl. settembre-dicembre), molto interessante dal titolo “La prevenzione
primaria dei tumori di origine industriale e ambientale in una società moderna”
.
Il volume ospita una ventina di studi epidemiologici su tipi diversi di
rischio, come i campi magnetici, le acque potabili, l’esposizione a inquinanti
prodotti in siderurgia, l’inquinamento urbano, quello legato alle discariche,
all’asbesto, al benzene, e l’esposizione ai farmaci antiblastici in ospedale.
Tutti argomenti di estremo interesse che meriterebbero ampio spazio. Quello che
vogliamo riportare in dettaglio è l’editoriale a firma di Lorenzo Tomatis, uno
dei massimi esperti italiani nel campo della prevenzione.

Il titolo è eloquente: “Come dovrebbe cambiare la
prevenzione primaria”. Perché Tomatis invoca un cambiamento nelle politiche di
prevenzione? Perché gli interventi preventivi a tutela delle popolazioni e in
particolare dei lavoratori sono sempre stati attuati con notevole ritardo
rispetto alle conoscenze epidemiologiche. A partire dal rischio radiologico in
ambito ospedaliero, per il quale le misure di prevenzione sono state introdotte
decenni dopo le prove sperimentali di tumorigenicità. Un caso che fa parte
della storia della prevenzione, ma che ha un suo seguito nelle “difficoltà che
si incontrano nel far accettare la pericolosità delle piccole dosi” legate alla
radioattività naturale sia in ambiente di lavoro, sia all’esterno.

Una causa dei ritardi nell’adozione di misure preventive è
che “l’establishment scientifico ha contraddetto una delle evidenze più forti
della sanità pubblica, e cioè che una prevenzione primaria efficace può essere
messa in atto nei confrontidi agenti causali prima di conoscerne i
meccanismi d’azione”.

Fra i casi più noti 
di ritardi ingiustificati nella prevenzione vi è quello delle amine
aromatiche (70 anni dalle prime evidenze scientifiche), quello del
bis-clorometiletere (BCME). Ma è esemplare anche il caso del benzene, che a
fronte di conoscenze sufficienti già nel 1946 e in seguito rimaste praticamente
immutate, il livello accettabile è stato prima di 100 ppm, poi 10 ppm nel 1978,
infine di 0.3 ppm nel 1994: “L’evoluzione delle concentrazioni accettabili non
era quindi condizionata dall’evolversi delle conoscenze sulla cancerogenicità
del benzene, che erano più che sufficienti da numerosi decenni, ma erano
piuttosto il risultato delle lotte per la salute che operai, sindacati,
magistrati e medici impegnati conducevano contro forti soggetti economici che
difendevano a spada tratta il mantenimentodei loro profitti”.

Altri casi esemplari sono quello del dietilstilbestrolo
(tumori vaginali nelle figlie in giovane età di donne trattate con il farmaco),
e quello più attuale dell’amianto, su cui a tutt’oggi manca un accordo
internazionale che ne vieti la produzione e l’uso.

Attualmente la classificazione delle sostanze cancerogene
più autorevole è considerata quella della International Agency for Cancer Research
(IARC) con sede a Lione. La IARC valuta la possibile cancerogenicità di agenti
chimici ed esposizione a sostanze complesse e li assegna a gruppi diversi a
seconda del livello di evidenza disponibile a 4 gruppi: Gruppo1- cancerogeni
umani accertati, 95 sostanze; Gruppo 2 A – probabili cancerogeni umani, 65
sostanze; Gruppo 2 B – possibili cancerogeni umani, 240 sostanze; Gruppo 3 –
non classificabili per la cancerogenicità umana; Gruppo 4 – probabilmente non
cancerogeni.

Esiste attualmente un problema per quanto riguarda le
sostanze che rientrano nei Gruppi 2 A e 2 B. Infatti queste 305 sostanze sono
in attesa di una definizione definitiva che dipende da ulteriori ricerche
epidemiologiche e di base, che sono rese difficili dalla scarsezza dei
finanziamenti e per lo scarso interesse da parte dei ricercatori per studi a
esito incerto. Per questo si rischia un impasse dai tempi molto lunghi che può
esporre a rischio cancerogeno le popolazioni per un numero elevato di sostanze.

Tomatis sottolinea le incoerenze
che caratterizzano la presente attitudine di svalutare l’importanza delle
sostanze chimiche di origine industriale e di ridurre il loro ruolo a poco più
che marginale. Eclatante quella di “non tener sufficiente conto del fatto che l’azione
universalmente riconosciuta della miscela complessa che è il fumo di tabacco, è
attribuibile in misura non trascurabile alla presenza di piccole quantità di
alcuni fra quegli stessi composti chimici identificati come cancerogeni nell’ambiente
di lavoro e il cui ruolo si tende oggi a sottovalutare, se non a dimenticare”.
Undici dei tredici composti chimici identificati nel fumo di tabacco come
appartenenti al Gruppo 1 della IARC sono stati identificati originariamente
nell’ambiente di lavoro e descritti come cancerogeni occupazionali. Anche gran
parte dei trenta composti presenti nel fumo e appartenenti ai Gruppi 2 A e 2 B
l’esposizione è o è stata occupazionale. Le quantità riscontrate nel fumo sono
tali per cui, se i composti venissero considerati individualmente, un loro
possibile effetto incontrerebbe serie difficoltà a essere verificato. “Il
fumo di tabacco fornisce quindi la dimostrazione che cancerogeni diversi, a
concentrazioni basse,  non dissimili da
quelle che si riscontrano nell’ambiente generale inquinato, possono addizionare
i loro effetti e cooperare tra loro fino a produrre un effetto cancerogeno rilevante
”.

 

Keywords: prevenzione primaria; sostanze cancerogene;
cancerogeni; tumori; tabacco; rischio attribuibile.